Ivan Capelli e la Ferrari: dal sogno al grande incubo
Storico commentatore sportivo della RAI e fresco presidente dell’Automobile Club di Milano, oggi chiamato nella complessa impresa di salvare il Gran Premio di Monza, Ivan Capelli, in un’intervista al mensile inglese F1 Racing, rivive gli anni della sua carriera automobilistica, dal calcio ai kart, alla Formula 3 e 3000, fino alla Formula 1, offrendo un indimenticabile affresco del mondo delle corse di qualche tempo fa. In questa seconda parte (leggi la prima) Ivan ripercorre gli anni in Leyton House e l’arrivo alla Scuderia Ferrari.
[Leggi la prima parte: Capelli, dal calcio alla F1 anche grazie a Ken Tyrrell]
D: “Il quarto posto ad Adelaide fu un risultato fantastico.Ma non avevi il supporto economico per la F1 nel 1986, così provasti la F3000 e vincesti il titolo”.
IC: “È piuttosto curioso il modo in cui vanno le cose. Fu quando incontrai Akira Akagi, il proprietario della Leyton House”.
D: “…che portò alla F1 nel 1987 e alla eventuale formazione della scuderia Leyton House March”.
IC: “La prima gara fu al Jacarepagua nel 1987. Compreso me, mio padre, il mio manager Cesare Gariboldi, il traduttore, Akira Akagi, la sua fidanzata e un’altra persona della Leyton House, il team era composto in totale da 17 persone. In totale!”
D: “Ma riuscisti comunque a chiudere sesto a Monaco. Fu un bel risultato. Il passo successivo fu prendere a bordo Adrian Newey. Lo conoscevi?”
IC: “Mi avevano detto che questo giovane e brillante ingegnere avrebbe progettto la nostra macchina. Al di là di questo, non sapevo molto di lui. La macchina del 1988, la March 881, era molto bella e introduceva in F1 un nuovo concept”.
D: “Ma era stretta… molto stretta”.
IC: “Quando la provai per la prima volta, mi resi conto di quanto piccolo fosse lo spazio per alloggiare le gambe del pilota nella paratia: 25 centimetri per 25 centimetri. Dovevo entrare in macchina prima con una gamba, poi con l’altra. Il volante era di 25 cm; era come guidare senza servosterzo”.
D: “E le nocche delle dita?”
IC: “Il monoscocca era molto alto, dunque il volante era dentro e così vicino alla fibra di carbonio. Era doloroso guidare quella macchina”.
D: “Non c’erano delle norme di sicurezza che stabilivano che tu dovessi essere in grado di uscire dall’abitacolo in un certo lasso di tempo?”
IC: “C’erano, si. Dovevamo fare sedile speciale per uscire. E una speciale colonna dello sterzo che ci aiutasse a tirar fuori le gambe. Eravamo pazzi! L’altra cosa che scoprii quando mi calai nell’abitacolo della macchina per la prima volta fu che non riuscivo a muovere la leva del cambio. Chiesi ad Adrian cosa potevamo fare. Disse: ‘Resta lì’, e chiamò un meccanico. Tirarono fuori la leva del cambio e andarono nel retrobox. Sentii un fracasso infernale e Adrian tornò poi con una leva del cambio completamente piegata ad angolo. Disse: ‘Riesci a muoverla adesso?’ Quando dissi che potevo, mi disse che avrei dovuto imparare a usarla in quel modo”.
D: “Quindi la leva del cambio era più o meno parallela al telaio e dovevi muoverla su e giù invece che avanti e indietro?”
IC: “Esatto. Facemmo una stagione intera così”.
D: “Non deve essere stato facile. E nonostante ciò trovasti dei buoni risultati quell’anno”.
IC: “Secondi all’Estoril, terzi a Spa”.
D: “E conducesti per breve tempo la gara a Suzuka”.
IC: “Sì. Di nuovo, con la pioggia, mi ritrovai tra le McLaren di Alain Prost e Ayrton Senna”.
D: “È tipico della Formula 1 che dopo una buona stagione, quella dell’89 andò male. Sotto diversi aspetti…”
IC: “Vero. Cesare Gariboldi ebbe un incidente mortale con la sua macchina. Lui aveva cominciato il progetto Leyton House e io avevo un rapporto fantastico con lui. Nel 1989 la macchina non era buona e arrivò anche un’altra tegola quando Adrian decise di andare alla Williams”.
D: “Ma sei sopravvissuto, e il 1990 e il 1991 furono buone annate che ti portarono all’offerta da parte della Ferrari. Un momento in cui devi aver desiderato che Cesare fosse al tuo fianco, quando poi la stagione in Ferrari andò così male. Non so quanto tu ne voglia parlare. Probabilmente fa male, anche ora”.
IC: “Quando la Ferrari disse che volevano darmi la possibilità di guidare Jean Alesi nel 1992, avevo già un contratto con la Scuderia Italia, ma Ferrari disse che non era un problema. Ma il contratto con la Ferrari era abbastanza oscuro in relazione al tipo di progetto che stavano sviluppando, sul tipo di macchina. Ma era la Ferrari. Dunque firmai e mi ritrovai, 29enne, in Ferrari con la F92A. Quando la vidi per la prima volta pensai che doveva essere una macchina fantastica, sembrava un combattente. Al primo test all’Estoril, la Williams stava sviluppando le sospensioni elettroniche ed era un secondo e mezzo più veloce. Capimmo immediatamente che avevamo un grosso problema. In quel test, Jean aveva la F92A, io la vecchia vettura. Dovevo sempre viaggiare con 150 litri di carburante per mantenere lenta la macchina. Nello stesso momento, Jean diceva che la vettura era fantastica, che avremmo vinto delle gare. L’ultimo girono, mi lasciarono guidare la vettura nel pomeriggio. Mi resi conto che Jean guidava con un setup differente da quello con cui mi sentivo a mio agio, dunque cercai di cambiarlo. La macchina aveva molti problemi; il sistema mono-shock non funzionava bene, la macchina rimbalzava molto e non sentivo la deportanza che ti aspetteresti da un doppio fondo. Dunque, un pilota dice vincerà, l’altro che la macchina fa schifo. Dissi che dovevamo lavorare duro per mettere insieme una macchina che mi consentisse di competere con gli altri. Dissero, no; dovevano seguire Jean. Sin dagli esordi, ero fuori dal team”.
D: “La pressione di essere un pilota Ferrari fu peggiore di quello che ti aspettavi?”
IC: “In Italia c’è una grossa differenza tra i due piloti Ferrari e chiunque altro sulla griglia. Quando ero alla Leyton House potevo andare nella pizzeria vicino casa con gli amici. Dicevo: ‘siamo in quattro’, e mi veniva risposto: ‘c’è da aspettare 20 minuti’. Quando divenni pilota Ferrari, stesso posto, stessi amici, buttavano fuori le persone per darmi un tavolo. Dicevo che avrei preferito aspettare, ma insistevano. Quando andai da Milano a Maranello a firmare il contratto, mi fermai a fare benzina in autostrada vicino Piacenza. Erano circa le 7 del mattino. Pagai e continuai. Più tardi, il comunicato stampa di Maranello disse che Ivan Capelli era diventato un pilota Ferrari per la stagione ’92. Alla sera mi fermai alla stessa stazione di servizio, corsia opposta. Ci rimasi circa 20 minuti, perché la gente faceva fotografie, mi chiedeva autografi. In 12 ore, la mia vita era cambiata completamente”.
D: “Dunque avevi tutto questo, ma lottavi con la macchina e non trovavi risultati. Deve essere stata molto dura per un italiano”.
IC: “Durissima, perché ero nel posto che avevo sognato sin dall’inizio della mia carriera. Quando provai la macchina per la prima volta a Fiorano, chiusi gli occhi nell’abitacolo per alcuni secondi e ripensai a mio padre, a Ermanno Cuoghi che mi metteva nella macchina di Lauda. Ora avevo il cavallino rampante sul mio volante, la mia macchina. Era un bel momento. Ma riuscite a immaginare le pressione?”
D: “Posso solo cominciare a capirla. Come ti sei sentito alla fine di quell’anno?”
IC: “Solo, perché non avevo nessuno ad aiutarmi. Sentivo che tutti, eccetto i miei meccanici e il mio ingegnere, stavano cercando di affossarmi. Erano così veloci nell’esprimere giudizi”.
D: “Quel che è peggio, non ti consentirono di finire la stagione. Come andò?”
IC: “Te lo dirò esattamente. Dopo l’Estoril, la terz’ultima gara della stagione, ricevetti una chiamata dalla segreteria di Luca di Montezemolo, che mi chiamava a Maranello. Ci andai ma, invece di andare nell’ufficio del presidente, fui condotto in una stanza ove c’erano il team manager, Sante Ghedini, il responsabili dell’ufficio stampa e Harvey Postlewaite. Tre sedie da una parte del tavolo, una per me dall’altro lato. Il piano era vuoto, eccetto che per un foglio, sistemato a faccia in giù. Dissero che era il comunicato stampa che sarebbe stato rilasciato nel giro di mezz’ora per annunciare che il nostro rapporto era concluso. ‘È tutto. Ti daremo quello che ti spetta in termini di contratto, ma, poiché vogliamo sviluppare la sospensione per il prossimo anno con Nicola Larini, tu sei fuori dal team’. Non avevo un manager, dunque chiesi se potevo fare una telefonata. Andai in un altro ufficio e chiamai mio padre e gli dissi che mi avevano concesso mezz’ora. Mi disse: ‘ Non preoccuparti. Non abbiamo più bisogno di tutto questo. Dì arrivederci’ – usò altre parole – ‘e torna a casa’”. Era come un sogno che si trasforma in incubo, ogni giorno peggiore dell’altro. Dividevo la mia vita con la donna che nel 1993 sarebbe diventata mia moglie, e ricordo che mi venne uno sfogo per l’ansia. Dovette quasi legarmi le mani per farmi smettere di grattarmi a sangue per una situazione in cui, anche se tutti sapevano che la macchina non era buona, la colpa era di Capelli”.
D: “E poi il tuo vecchio amico Ian Phillips ti invitò a provare la Jordan”.
IC: “Feci un’altra esperienza. Se Ken Tyrrell e Akira Akagi erano icone della mia vita in F1 per la loro attitudine, posso dire che Eddie Jordan aveva un altro tipo di attitudine, anche se era anche lui un’icona, specialmente in quel periodo. Eddie fu molto duro perché avrei dovuto mettere insieme un milione di dollari di sponsor per correre con lui. Ne trovai solo 250mila. La Jordan non era buona, e mi misi sotto pressione nel tornare in F1 con una gran voglia di rivalsa. È la cosa peggiore che si possa fare, perché ti porta a guidare oltre il limite e a non controllare più la situazione. Dopo due gare, Eddie disse che se non avevo soldi da mettere sul piatto, non potevo correre. Dissi a Eddie: ‘Se dopo 93 corse devo ancora pagare per guidare, c’è qualcosa di sbagliato nella F1’. Allora smisi”.