Rush, non solo una storia sulla F1 degli anni d’oro
Del film di Ron Howard, su BlogF1, se ne è parlato tanto. Ma abbiamo deciso di concludere in bellezza, pubblicando la mail inviataci da una “lettrice occasionale”, che spiega perfettamente perché il film su Lauda e Hunt s’ha da vedere. Un parere fuori dal coro dei puristi del motorsport che fa capire come la pellicola sia pronta a far appassionare ed emozionare anche i più scettici.
Ebbene, il miracolo è infine accaduto. Folgorata da “Rush”, il film di Ron Howard uscito giovedì in Italia, vivo ancora quello stato di esaltazione fisica e mentale che colpisce chiunque compia qualsiasi esperienza umana considerata mediamente intensa o soddisfacente. In realtà, una reazione per me tutt’altro che scontata, visto l’argomento in questione.
Infatti (e qui lo metto nero su bianco, con divertita ironia), io appartengo a quella categoria di persone (e di donne?) per cui – tenetevi forte – le macchine non sono soltanto tutte uguali, ma anche un semplice mezzo di locomozione, che mi portino da un punto A ad un punto B, mentre tutto il resto è noia e gioia dei meccanici del momento. E per finire, non mi piace correre, né tantomeno la velocità, fedele al motto di “Chi va piano, va sano e va lontano”. Insomma, non è mai esistita alcuna alchimia, scherzo del fato o maledizione, che potesse accomunarmi al mondo delle gare automobilistiche. Almeno fino a ieri, quando la fede sportiva di un amico appassionato di Formula 1, e vostro lettore, ha permesso che ciò accadesse, trascinandomi con lui al cinema.
Incentrato sulla rivalità tra l’austriaco Niki Lauda (campione del mondo per la Ferrari nel 1975, 1977 e per la McLaren nel 1984) e l’inglese James Hunt (campione del mondo per la McLaren nel 1976), “Rush” ripercorre gli anni delle prime corse in Formula 3 e l’approdo in Formula 1, fino al terribile incidente del 1 agosto 1976: sul circuito tedesco del Nurburgring, soprannominato “l’inferno verde” per la pericolosità delle sue curve immerse nella fitta vegetazione, Lauda perde il controllo della sua vettura a causa della rottura della sospensione, sbattendo violentemente e rimanendo intrappolato nelle fiamme sprigionatesi intorno all’abitacolo. Sopravvissuto miracolosamente alle gravi ustioni riportate, il pilota austriaco ritorna in pista già sei settimane più tardi, riguadagnando ben presto punti e terreno. Ad un passo dall’essere riconfermato campione del mondo per quell’anno (Hunt è indietro di soli tre punti), Lauda decide di ritirarsi dalla gara ai piedi del monte Fuji a causa delle pessime condizioni meteo, lasciando di fatto la conquista del titolo al rivale di sempre.
Pur avendo personalità differenti, oltre che un diversissimo stile di guida, Niki Lauda e James Hunt hanno un sacrosanto punto in comune: la voglia di vincere, tagliare la linea del traguardo per non doversi guardare più indietro. Ma con una differenza, la percezione del limite: Hunt sempre al di là di quest’ultimo, Lauda entro il suo confine. Il primo sfida la morte di petto, combattendola con l’istinto; il secondo la ammalia, la ipnotizza a suon di calcoli e misure, per evitare di incontrarla di nuovo. Difficile scegliere da che parte stare, per chi fare il tifo. Anche se, alla fine, il favorito sembra essere colui il quale sia capace di guardare più lontano, oltre se stesso.
Il film, dal canto suo, descrive i due piloti come la perfetta antitesi l’uno dell’altro, permettendosi qualche licenza poetica (Hunt che picchia a sangue un giornalista, evento mai verificatosi a detta del figlio) ed estremizzando il self-control di Lauda, le cui abitudini sembrano pari pari quelle di un monaco tibetano, o la vita da bohemien di Hunt, tutta sesso e rock ‘n’ roll . Per il resto, la storia è attinente alla realtà dei fatti.
Ciò che colpisce a fondo, inoltre, è la profonda umanità dei due personaggi, il loro essere uomini “normali” nonostante la scelta di una vita fuori dagli schemi: i conati di vomito di Hunt prima di ogni gara, le smorfie di dolore di Lauda nell’indossare il casco sulle ferite ancora aperte. Difficile scegliere da che parte stare.
Magnifica la cura del film per i dettagli e le inquadrature: la telecamera si inclina e si abbassa spesso al livello della pista, regalando prospettive mozzafiato; lo zoom incastra lo sguardo fra gli ingranaggi del motore, con un godimento visivo, e auditivo, di tutto rispetto (fenomenale il rumore del cambio manuale). Anche gli attori sono molto somiglianti ai personaggi che interpretano: Daniel Bruhl ha gli stessi denti leggermente sporgenti di Niki Lauda, mentre Chris Hemsworth i capelli disordinati di James Hunt. Bella e coinvolgente la colonna sonora, con le musiche di Hanz Zimmer.
Lo ammetto, non volevo proprio arrivassero i titoli di coda. Ed ero e sono sinceramente dispiaciuta che un film del genere, almeno per la mia esperienza, abbia avuto un numero così scarso di presenti in sala. Pochi ma buoni, mi viene da pensare, annoverando nel gruppo anche la sottoscritta. La quale rimarrà sempre una disadattata, un’autentica frana in fatto di macchine e motori, ma con una convinzione divenuta assoluta: non sappiamo mai cosa potrebbe esserci dopo l’ultima curva, se la nostra auto ci tradirà o meno. L’importante è saper fare delle scelte. Essere piloti, non spettatori della nostra vita.
Elvira P.