F1 a stelle e strisce: alla riscoperta dell’America
Il Circus si appresta a tornare nella Terra della Libertà. Questo weekend si correrà ad Austin, ma quello tra la Formula 1 e l’America, è un rapporto d’amore e odio che dura da quasi cinquant’anni.
SEBRING 1959 – Un tracciato di ben 8.3 chilometri. All’epoca una campagna paludosa con una nastro d’asfalto in mezzo, ma già famosa per la sua 12 ore. Ricavato sulla pista di un aeroporto, il circuito è dotato di una sede stradale particolarmente larga, ma irregolare ed informe. E, in un certo senso, sono proprio queste caratteristiche a dare il senso della sua storia che porta a considerare Sebring la madre dei circuiti americani. Il vincitore della prima edizione del GP degli Stati Uniti fu un giovanissimo Bruce McLaren sulla Cooper, ma ci si ricorda di quel quarto posto di Jack Brabham che gli consentì di vincere il titolo sulla Ferrari di Brooks per 4 punti di vantaggio. [Video: David Brabham, giro commemorativo a Sebring sulla Cooper T51-Climax]
RIVERSIDE 1960 – Era la decima, e ultima, gara del campionato di quell’anno. Sul tracciato lungo 5.2 chilometri, tra il cocente sole californiano e un paesaggio polveroso e quasi desertico, si impose la Lotus-Climax con Stirling Moss davanti al compagno Innes Ireland. La pista venne chiusa nel 1988.
WATKINS GLEN 1961/1980 – La Formula 1, al Glen, sembrava aver trovato fissa dimora. L’autodromo di 5.4 chilometri è situato nello stato di New York. Questa è stata la sede del Gran Premio degli Stati Uniti per 20 anni consecutivi. Un tracciato amato dai piloti, ma che iniziò ad essere troppo pericoloso con le vetture che erano sempre più veloci. Al Glen se ne andarono diversi piloti, come François Cevert, ma questo posto è ricordato più per i bei momenti che ha regalato alla F1. Nel ’65, le Ferrari corsero con la livrea bianco-blu del North American Racing: una delle poche volte che si rinunciò al Rosso. Nel ’68, Mario Andretti conquistò la pole, nella gara del suo debutto in F1. E poi ci sono le grandi vittorie di Clark, l’ultima conquistata nonostante la rottura della sospensione posteriore della sua Lotus 49. [Video: Stewart racconta la morte di Cevert]
Long Beach 1976/1983 – Il periodo d’oro della F1 in America è proprio questo. In calendario, oltre a Watkins Glen, c’era anche Long Beach con il GP degli USA Ovest. Un circuito cittadino di 3.2 chilometri, dove i piloti dovevano evitare anche i tombini. Il rapporto tra Long Beach e la F1 sembrava indissolubile. Ecco, sembrava… [Video: Long Beach ’83, piroette di Rosberg]
Las Vegas 1981/1982 – Nonostante non si corresse per il GP degli Stati Uniti, Las Vegas sembrava poter andare d’amore e d’accordo con il Circus. E, invece, solamente per due anni si corse sul tracciato che ha, tra i record, il giro più veloce di Michele Alboreto sulla Tyrrell. Carlos Reutemann, che qui perse il Mondiale 1981, diceva sempre: “Prima o poi dio metterà una bomba in questo posto. A Las Vegas puoi trovare le persone peggiori”. [Video: Highlights Las Vegas ’81]
Detroit 1982/1988 – Una pista considerata sensazionale che, pur essendo un cittadino, era abbastanza larga per consentire i sorpassi. In più, era ricca di curve cieche e diversi saliscendi. Correre a Detroit voleva dire riunire l’intera industria automobilistica mondiale e portarla nell’atmosfera tipica di Montecarlo. Mitica la corsa di John Watson nel 1982: dalla tredicesima posizione, riuscì a portare la sua McLaren alla vittoria, grazie ad una gara memorabile. [Video: la rimonta di Watson a Detroit ’82]
Dallas 1984 – L’accordo prevedeva cinque edizioni su questo tracciato e, invece, fu solamente un caso isolato. Dallas fu uno dei primi casi in cui il business aveva il sopravvento in questo sport. Tutti però raccontano di un evento da ricordare: vinse Keke Rosberg, rilassato nella sua tuta refrigerata, mentre tutti fuori grondavano di sudore. Faceva talmente caldo che la gara venne anticipata alle 11 del mattino, con il warm up praticamente all’alba. E, chi c’era, ricorda ancora di Jacques Lafitte che si presentò nel paddock ancora in pigiama. Quell’edizione del GP degli Stati Uniti, però, viene spesso ricordata per la prima pole position di Nigel Mansell. Il Leone inglese, dopo aver dominato per buona parte la corsa, fu tradito dalle gomme che persero prestazione. All’ultimo giro, a pochi metri dalla fine, la sua Lotus si piantò a pochi metri dal traguardo. Nonostante il caldo torrido e le due ore di gara alle spalle, Nigel scese dalla vettura e provò a spingere generosamente la sua Lotus oltre il traguardo, ma svenì per la troppa fatica. [Video: Mansell, Dallas ’82]
Phoenix 1989/1991 – E’ difficile pensare che la città di allora, non abbia nulla di simile a quella di oggi. Bisogna sforzarsi per poter pensare che, in mezzo ai grattacieli, potesse sorgere un circuito cittadino. Fu lì che qualcosa tra il Circus e l’America iniziò a non funzionare più. L’IndyCar era in crescita e la Formula 1 andava rivista, perché sui circuiti stradali iniziava ad essere monotona. Phoenix ebbe questo solo grande merito, il resto fu soltanto noia. Solamente Jean Alesi riuscì a dare un po’ di spettacolo, nell’edizione del ’90, con quel duello incredibile con Ayrton Senna. Poi la F1 lasciò l’America e si intuì che, quando sarebbe tornata, lo avrebbe dovuto fare in maniera del tutto diversa. [Video: Senna VS Alesi, 1990]
Indianapolis 2000/2007 – E la F1 in America ci tornò, quasi dieci anni dopo, e lo fece nella Capitale del mondo delle corse: l’Indianapolis Motor Speedway. All’interno del famoso catino, venne costruito il circuito che ha ospitato 8 GP degli Stati Uniti. L’ultimo nel 2007, dove Hamilton impose il proprio ritmo. Ma l’edizione più curiosa fu quella del 2002: Schumacher dominò la corsa, davanti a Barrichello. Le due Ferrari arrivarono in parata ma, incredibilmente, per 11 millesimi, il brasiliano si ritrovò in mano la vittoria. [Video: Barrichello vittorioso per 11 millesimi]
Adesso tocca a Austin aprire un nuovo ciclo, che potrebbe essere portato avanti anche dalla corsa in New Jersey tra uno o due anni. La F1 ha capito che può raddoppiare il proprio giro d’affari se riesce ad attecchire oltreoceano. Ma basterà l’imprevedibilità a far appassionare il pubblico americano, abituato ad un ambiente corsaiolo decisamente più vicino agli appassionati?